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La cattura e il sequestro del carbonio in centrali termoelettriche italiane

La cattura e lo stoccaggio della CO2 prodotta dalle centrali termoelettriche rappresenta una soluzione tecnologica in grado di favorire la transizione energetica verso gli scenari europei net-zero fissati al 2050 dalla COP26.



Al fine di favorire la diffusione e la competitività di tali tecnologie occorre condurre analisi tecnico-economiche in grado di valutare la potenzialità del parco termoelettrico italiano rispetto a possibili investimenti di retrofit con unità di cattura e stoccaggio. La decarbonizzazione del settore energetico è parte integrante delle misure previste dall'Accordo di Parigi per la lotta al cambiamento climatico [1]. Durante la COP26, l'ultima conferenza delle Nazioni Unite riunitesi a Glasgow, è stata ribadita la necessità di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali.

I Paesi membri dell'Unione Europea hanno stabilito di voler raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 ed è rilevante come la maggior parte delle strategie energetiche net-zero abbia come fattor comune il potenziamento dei sistemi di produzione di energia da rinnovabili.

Eppure, riuscire a coniugare la domanda energetica mondiale con la produzione altamente variabile e stagionale delle fonti rinnovabili è un elemento critico che potrebbe rallentare gli obiettivi target posti in essere dalla COP26.

La recente roadmap pubblicata dall'International Energy Agency (IEA) approfondisce proprio questo aspetto, dimostrando come gli attuali impegni climatici non siano sufficienti a traguardare la neutralità energetica, almeno nel breve periodo [2].

Lo stesso rapporto, altresì, evidenzia la necessità di affidarsi a tecnologie di transizione in grado di favorire la decarbonizzazione del comparto della produzione di energia. Tra queste, un ruolo importante è sicuramente ricoperto dai sistemi di cattura e sequestro del carbonio (CCS, dall'acronimo inglese di carbon capture and storage).

La CCS consta sostanzialmente di tre fasi: la cattura delle emissioni di CO2 prodotte dalle centrali termoelettriche, il trasporto e, successivamente, il confinamento geologico in bacini esausti o falde acquifere ritenute sicure per lo scopo [3, 4].

La CCS è ancora in una fase iniziale di sviluppo, spesso prototipale e non sempre disponibile su larga scala, pur essendo degni di menzione alcuni esempi di unità di cattura, come l'impianto commerciale Boundary Dam in Canada, operativo dal 2014, e la piattaforma europea Sleipner T in Norvegia, entrata in funzione nel 1996, con circa 20 milioni di tonnellate di CO2 stoccate nei depositi salini del Mare del Nord [5].

Al fine di favorire una maggiore diffusione della CCS è necessario cooperare per la definizione di politiche di supporto al coinvolgimento di diversi stakeholders del settore industriale e della ricerca, nonché per proporre nuovi standard di riferimento [6].

Oltre alla sfida tecnologica, la competitività della CCS risulta critica anche a causa degli alti costi di investimento necessari per la sua diffusione su larga scala. Solitamente, la valutazione economico-finanziaria viene effettuata al livello del singolo impianto, comparando la costruzione di una nuova centrale termoelettrica dotata di unità CCS rispetto alla stessa centrale che opererebbe senza unità di cattura.

Tuttavia, la realizzazione di nuovi impianti progettati ad hoc per la cattura e lo stoccaggio della CO2 è soltanto una delle possibili opzioni per la riduzione delle emissioni nel breve periodo. Come alternativa, infatti, vi è il retrofit degli impianti esistenti che prevede di aggiungere la sola unità di cattura della CO2 all'impiantistica della centrale termoelettrica, con costi di investimento decisamente più contenuti [7].

Le due soluzioni vengono poi confrontate sulla base di diversi indicatori, tra cui il costo livellato dell'elettricità (LCOE, Levelized Cost of Electricity) e i costi della CO2 catturata e immagazzinata [8]. Pur rappresentando largamente la metodologia di analisi più utilizzata in ambito tecnico e scientifico, l'approccio comparativo mediante LCOE non tiene conto di alcune specifiche caratteristiche tecnologiche e regionali delle centrali o del mix di risorse esistente.

Certamente, l'indicatore LCOE è significativo soprattutto quando si desiderano confrontare diverse tecnologie di produzione di energia, tuttavia, occorre poter dare anche una stima dei potenziali ricavi, ovvero determinare il valore finanziario dell'impianto in relazione alla rete esistente [9].

Per tener conto di questi aspetti, la U. S. Energy Information Administration (EIA) raccomanda anche il calcolo dell'indicatore LACE (Levelized Avoided Cost of Electricity) per la valutazione dei ricavi derivanti dalla vendita di energia elettrica [10].

Il calcolo di questo indicatore è sicuramente più complesso per via della necessità di dover stimare l'impatto dell'unità produttiva all'interno del mercato elettrico nazionale. Pertanto, si valutano scenari futuri che includano sia possibili variazioni giornaliere e della domanda elettrica nazionale sia le caratteristiche tecniche e operative dell'impianto.

La scarsa redditività degli investimenti di retrofit di centrali termoelettriche italiane non deve sorprendere, anzi è in linea con la letteratura in materia, nonostante il confronto sia disponibile solo per stabilimenti statunitensi e cinesi.

Per quanto riguarda gli ulteriori sviluppi di questa ricerca, occorrerebbe poter valutare il costo sociale della CO2, anche in termini di accettazione rispetto allo stoccaggio in giacimenti o falde, e un'analisi di sensitività dei principali fattori che influenzano il valore netto LACE-LCOE degli impianti.

Appare quindi evidente che la CCS non è forse la soluzione definitiva per risolvere i problemi legati alla riduzione delle emissioni, ma che, se opportunamente finanziata e incentivata, potrebbe contribuire insieme alle fonti rinnovabili al successo delle azioni strategiche di mitigazione dei cambiamenti climatici nel prossimo futuro.

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